Il suono freddo e meccanico del citofono risuona tra le pareti dello studio, facendomi sobbalzare. Mando giù la saliva e mi alzo dalla poltrona. Sento che il battito cardiaco ha subito una brusca accelerata. Penso che è solo un momento, passerà.
Ho appena finito un colloquio con un paziente che seguo da due mesi. Con lui mi sento sicuro, è un caso sufficientemente gestibile. Eppure, c’è qualcosa che striscia, sotto la superficie, incrinando quella labile sensazione.
So cos’è, solo che non ha nome.
Mi avvicino a passo svelto al citofono, come se camminare più rapidamente possa servire a darmi coraggio.
– Chi è? – chiedo, dopo aver sollevato la cornetta.
Mi risponde seccamente una voce femminile, con una decisione che quasi mi spiazza.
– Avanti! Quarto piano. – rispondo.
Aspetto di sentire, come sempre, il rumore del portone che si chiude. Una vecchia abitudine. Inutile, ma come molte abitudini dà l’illusione di prevedibilità.
Mando di nuovo giù la saliva. Mi infilo una mano in tasca e con l’altra apro la porta che dà sul pianerottolo, aspettando che la luce dell’ascensore si accenda di rosso.
Mi chiedo se sono vestito in maniera presentabile. “È importante, è un modo di comunicare” mi ripeto, come un bambino chiamato alla cattedra. Mi scruto da capo a piedi: una polo in fibra sintetica, un paio di chino color cachi, scarpe a strappo non troppo eleganti. Non vistoso, semplice, sobrio. Difficilmente criticabile. Altrimenti penserà che sono un bifolco. Cioè, lo penserò io, ma in quel momento è la stessa cosa.
Cerco di non pensarci. È lo stress, mi dico. È l’ansia.
– È un errore, idiota – mi urla dalle viscere la solita voce
Il pulsante dell’ascensore si accende di rosso. Penso che lei è al piano terra ora, e sta salendo. Il cuore riprende ad accelerare, mentre aspetto che sul display quello zero diventi un quattro. Faccio un respiro profondo, sapendo benissimo che non mi servirà a nulla.
Uno. Primo piano.
Ripasso gli appunti nella mia mente, sperando di aver fatto bene i compiti a casa.
Lei mi ha chiamato tre giorni fa. Avevo aspettato qualche secondo prima di rispondere alla chiamata. La solita angoscia davanti a un possibile nuovo paziente.
– Buongiorno. È lei il dottor Punzi? –
– Sì – rispondo, quasi ridendo di me mentre lo dico.
Mi dice che si chiama Claudia.
Claudia vorrebbe vedermi per un problema col suo ragazzo. Un problema relazionale, dice, che va avanti da tempo. Non fa cenno alla solita ansia o a problemi d’umore. Delle crisi di pianto che a volte accompagnano il primo contatto nemmeno l’ombra. Il problema è col suo ragazzo. Il tono di voce, anche in quel caso, è estremamente sicuro e deciso.
Mi sento più a mio agio con chi ha la voce tremante fin dall’inizio. Chi è molto sicuro di sé mi mette in difficoltà perché, di riflesso, appaio a me stesso come meno utile. La chiamata è stata breve. Appena tre minuti, li ho anche contati. Problema esposto, primo appuntamento fissato, saluti. Semplice. Perché allora tiro un sospiro di sollievo a fine chiamata?
Due. Secondo piano.
“Cosa può nascondere quella sicurezza? Perché mi fa sentire così nudo? Mi piacciono le sfide, almeno credo. Anche per me preferisco ragazze calme ma decise. La loro compagnia è riposante. Claudia ha fatto la dura? Quindi ci sarà più conflitto nella terapia? Dura significa aggressiva? Ah! Ma ci sono delle regole nella terapia, cara! Il setting, ricordati del setting! Essere troppo condiscendenti con certi pazienti non è né adeguato né utile. No, spiacente, gli appuntamenti annullati all’ultimo momento vanno pagati ugualmente!”
Tre. Terzo piano.
Mi rendo conto, d’un tratto, che sto rimuginando come sempre. La cosa peggiore è cercare di smontare i miei pensieri. “Lascia stare” mi dico “concentrati sul respiro”. Sposto l’attenzione sul diaframma, come mi è stato insegnato quando l’ansia monta. Mi rendo conto, in quel momento, che è diventato una piastra di ferro, rigida e inflessibile. Il battito è accelerato ancora e la mano dentro la tasca si è stretta a pugno. Cerco di rilasciarla, per poi rendermi conto che la bocca è ora secca e inaridita. Penso di andare a bere un bicchier d’acqua. Troppo tardi, avrei dovuto farlo prima.
Quarto piano. Le porte dell’ascensore cigolano e le luci interne proiettano un’ombra sul pianerottolo. Mi rendo conto che sto trattenendo il fiato.
Appare Claudia.
È una giovane ragazza, forse sulla trentina. L’ansia è tale che non riesco a concentrami sui dettagli del suo volto. Le porgo la mano sudata, pensando subito a quanto possa essere adatto quel gesto. È formale, dunque è adatto. Mi sento a mio agio nella rigida freddezza delle regole.
– Salve! Piacere! – mi dice, accennando appena un sorriso.
– Piacere! Prego, si accomodi! – rispondo sorridendo anch’io.
Ora, nell’ordine, seguo la procedura: chiudo la porta d’ingresso. La faccio accomodare nello studio, indicandole con un cenno il biposto. Chiudo la porta della stanza alle mie spalle. Accendo una luce e poi la spengo, sapendo che la cosa non ha senso. Prendo penna e taccuino, sapendo che dopo dieci minuti smetterò di prendere appunti. Mi siedo al mio posto e la fisso. Da questo momento cerco di mettere tutto il marasma che mi ribolle dentro in sordina, tentando di ascoltare ogni parola che mi dice Claudia. So già che non ci riuscirò.
– Ha avuto difficoltà a trovare il posto?
Esordisco sempre così. Anche questa è una vecchia abitudine. – No. – mi risponde subito – Nessun problema. È stato facile. – Bene. – rispondo –.
Il tempo, per un attimo, sembra sospeso.
Ho finito le cartucce. Ora tutto inizia.
– Allora Claudia – dico, ripetendo pedissequamente le parole che ho sentito tante volte nelle simulazioni a scuola – Io sono a sua disposizione.
Claudia sorride. Esordisce ripetendo subito che il problema è col suo ragazzo. L’ansia scende, quando penso che non dovrò parlare per un po’. Noto solo allora che è attraente. Questo non aiuterà.
Mi dà subito del lei. Meglio così. Mi sarei distratto pensando a come dirle che dare del tu non sempre è adatto ai fini terapeutici.
– Dilla bene! Riduce la distanza, aumenta la tua vulnerabilità. – mi deride la voce. Cerco di metterla nuovamente a tacere.
Claudia inizia a descrivermi la storia della sua relazione. Apparentemente è semplice, a tratti prevedibile. Ha incontrato lui ad un aperitivo e da allora hanno iniziato a frequentarsi. Lui è descritto come attraente, colto e dalle buone maniere. Ha quasi un anno in più di lei, sono praticamente coetanei. Entrambi amano la buona musica, viaggiare e l’attività all’aria aperta. Anche nell’intimità le cose vanno molto bene. La storia va avanti così da un po’. Mentre ascolto, penso a quando Claudia mi comunicherà quale sia la richiesta: quindi perché lei è qui?
Alla fine la richiesta arriva.
– Quindi, da quello che mi dice, sembra che le cose vadano bene tra voi…
– Vanno bene? – ripete lei – Pensi che qualche giorno prima che io la contattassi mi ha detto per la prima volta che mi ama. Ma me lo ha detto con una tenerezza…
– Ah! – esclamo, con una certa sorpresa – Però…
– No, qui arriva il problema, dottore. Il giorno dopo che me lo ha detto, io l’ho tradito col solito amico. Sprofondo nella poltrona. La cosa che ha appena detto Claudia mi apre letteralmente un mondo davanti. L’ansia da prestazione, che fino a quel momento tenevo a bada sotto il cuscino, ricaccia fuori la testa.
– Capisco… è questo quindi il problema col suo ragazzo?
Claudia resta in silenzio un momento, fissando il tappeto che ci divide.
– Non so… in realtà credo sia una cosa mia. Io faccio sempre così se un uomo mi dice quella frase. Da quando avevo sedici anni…
Sprofondo definitivamente. Per un momento, quasi mi sembra di aver spento l’interruttore.
Poi cerco di scuotermi, tornando con la mente al presente. Ma in un istante la mia mente è colma di domande: non tollera la vicinanza emotiva? Sistema d’attaccamento danneggiato da trauma precoce? Investigare. Narcisista?
Poi arriva la domanda vera. Inizialmente non è la mente a porla. La voce, stavolta, fa un giro diverso. Inizia tutto con un irrigidimento della schiena. Probabilmente sarà dolente a fine seduta. La mano sinistra si stringe al bracciolo della poltrona. Dovrei muovermi per sciogliermi un po’, ma in quel momento non ci penso. Ipersalivazione.
– E ora?
Due semplici parole. Poi la voce arriva.
– Sveglia! Secondo te non si accorge che ti ha messo in difficoltà con due frasi? Fai la domanda giusta. Tu devi sapere qual è la domanda giusta. Già lei si sta rendendo conto che stai prendendo tempo! – Cerco di rifocalizzarmi su di lei e faccio una domanda che mi viene spontanea in quel momento. Non c’è scritto sul manuale se sia giusta o meno. Le regole che seguivo sempre per essere il primo della classe stavolta non mi salveranno.
– Claudia. Cosa ha provato quando il suo compagno le ha detto che la amava?
Praticamente un affondo. Troppo precoce, forse. Ormai l’ho chiesto.
Claudia mi fissa, reclinando il collo verso destra come uno scolaretto che legge una parola nuova.
– Non sono sicura… – dice lentamente, pesando ogni parola – Insomma stava andando tutto bene, capisce?
Continua riproponendomi la storia che mi ha già raccontato, cambiando giusto qualche nota. Stavolta so cosa dire. Credo.
– Claudia, capisco che la sua storia sia stata bella fino a quel momento. Ma penso sia importante capire quello che prova in situazioni simili. Lei ha detto che il suo compagno…
– Disprezzo!
Mi blocco di colpo, sbattendo vistosamente le palpebre.
– Quando un uomo dice di amarmi, mi sembra sempre un cane bastonato. Ecco cosa mi succede. Fino a che punto posso continuare a sprofondare in quella poltrona, davvero non lo so. È come se Claudia avesse confermato un mio atroce dubbio, anche se non so quale.
Con Claudia sarà dura. Come in quelle coppie in cui si sa da subito che le cose non saranno facili. Continuano ad aprirsi davanti a me schemi, modelle, teorie. Serviranno fino a un certo punto, cioè sempre troppo poco. Dovrò mettermi in gioco ed espormi se vorrò lavorare bene. Realizzare che sarà dura mi crea meno ansia del previsto.
Come dinanzi a un problema che inizialmente appare evitabile. La tensione viene prima, nella sua attesa. Poi il problema si rivela. E non è evitabile.
Resta solo l’accettazione. Del rischio. Del dolore. Della paziente.
La tensione scende. Lentamente ma scende. La schiena si rilassa. Il cuore va ancora troppo in fretta per i miei gusti.
C’è qualcosa su cui lavorare, per quanto grande possa essere.
La lancetta ha fatto il suo giro. Ringrazio il cielo per questo. Ci accordiamo per la settimana prossima, stessa ora, ma a dieci giorni di distanza. Il fatto di strappare qualche giorno in più è la mia solita, vecchia, inutile strategia di evitamento.
Quando mi paga c’è il solito disagio.
È il mio lavoro. Mi piace farlo. È giusto pagarmi.
Il disagio non se ne va.
Dico a Claudia, salutandola, che abbiamo fatto molto per il primo incontro.
Lo credo sul serio anche se lei mi appare perplessa. Forse si aspettava di più, forse cercava uno più bravo. Non lo saprò entro oggi. Era solo la prima seduta e mi ripeto che va bene così.
Claudia mi saluta con lo stesso sorriso appena accennato con cui è entrata. Chiudo la porta dietro di lei, lasciandomi avvolgere dal silenzio.
Era l’ultima oggi. Ho la serata libera e finalmente posso pensare ad altro. Va bene così.
Anzi, no.
Dott. Ruggiero Punzi