Psicosi da contagio: necessario preservare la salute mentale per combattere il coronavirus

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Che il Coronavirus abbia scatenato una vera e propria psicosi di massa è un fenomeno dimostrato dai social, ma non solo: oggi un amico mi inviava un vocale per chiedermi come frenare l’inarrestabile ansia della madre, la quale lo aveva svegliato all’alba con termometro alla mano per misurare compulsivamente la temperatura corporea.

La percezione del rischio si è dimostrato un alleato importante per la razza umana: difatti è grazie alla nostra naturale predisposizione a ricordare eventi spiacevoli e informazioni negative che l’evoluzione ci ha garantito la sopravvivenza.  Alla luce di questo è giustificata la paura come risposta ad uno stimolo/epidemia percepita come minaccia alla sopravvivenza della specie. Tuttavia, la Legge di Yerkes e Dodson sviluppata nel 1908 dagli psicologi Robert M. Yerkes e John Dillingham Dodson, sostiene che il rendimento o capacità di fronteggiare un pericolo, aumenti con l’eccitazione fisiologica o mentale, ma solo fino a un certo punto. Quando i livelli di eccitazione diventano troppo alti, il rendimento o la capacità di fronteggiare un pericolo diminuisce (vedi figura in basso: curva a U della Legge di Yerkes e Dodson).

Un esempio del funzionamento di questa legge è l’ansia che si prova prima dell’esame: un livello ottimale di stress può aiutare a concentrarsi nella prova e a ricordare le informazioni. Quando l’ansia è in eccesso, però, può compromettere la capacità di concentrazione, rendendo più difficile ricordare i concetti. Non vi sarà difficile generalizzare questo esempio al nostro stimolo-minaccia: un livello ottimale di stress è funzionale ad una risposta comportamentale tempestiva, efficace ma ancora razionale.

Nello specifico del nostro caso, diversi sono i meccanismi di pensiero che alterano ulteriormente la percezione della minaccia Coronavirus:

  • l’assenza di controllo riconducibile alle scarse informazioni sullo stimolo-minaccia o peggio ancora l’incoerenza delle stesse informazioni così come sono “vomitate” dai social;
  • la catastrofizzazione: potrei ammalarmi e morire; potrei fallire/perdere il lavoro;
  • il sentimento di responsabilità: potrei contagiare qualcuno, o peggio ancora persone vulnerabili a me vicine;
  • concentrazione selettiva e interpretazione erronee: ci si concentra sulle notizie negative con la funzione di prevedere/controllare la peggiore delle ipotesi future. A contribuire all’allarmismo è anche l’estrema difficoltà con cui il nostro cervello elabora informazioni molto complesse. Non essendo in grado di reperire e analizzare adeguatamente tutte le notizie e i dati disponibili, tendiamo a costruire schemi logici artificiali che includono solo le informazioni che ci consentono di sviluppare modelli rappresentativi della realtà, ovvero scenari futuri, che seppur catastrofici, danno forma e sostanza al rischio, e in qualche modo lo delimitano.

Infine la minaccia rispetto alla propria salute o a quella dei propri cari può elicitare eventuali traumi passati correlati al tema della malattia/morte, causando un’esperienza ansiosa risultato di un addizionale presente/futuro (minaccia Coronavirus) e passato (trauma riattivato dal Coronavirus).

Paura e Coronavirus: variabili in relazione di reciprocità?

Se è vero che il Coronavirus mette paura, dobbiamo anche tenere conto della relazione inversa, ovvero: una reazione di stress eccessiva, quindi sproporzionata alla reale minaccia, può mandarci in tilt, compromettendo la ragione che in questi casi è funzionale ad una risposta comportamentale adeguata e consapevole – che non sia, appunto, “psicotica” -. Infine le condizioni – tra le quali i meccanismi di pensiero disfunzionali – che causano uno stress-psicofisico possono indebolire il sistema immunitario, aumentando di conseguenza la nostra vulnerabilità al virus. Essere esposti a uno stress fisico e/o psicologico cronico, anche se non particolarmente intenso, tende ad alterare il numero e il tipo di globuli bianchi presenti nel sangue e nei tessuti e la qualità/quantità delle sostanze difensive che producono (citochine, interferoni ecc.), portando a una complessiva compromissione della capacità dell’organismo di difendersi da aggressioni esterne da parte di virus, batteri e altri agenti patogeni.

Imparare a modificare la catena dei pensieri può quindi rivelarsi strategicamente importante al fine di preservarsi nelle situazioni di pericolo: la psicoterapia può fornire un valido aiuto attraverso l’apprendimento di strategie di pensiero idonee alla risoluzione efficace del problema; queste strategie tengono conto dello stimolo antecedente alla paura (minaccia reale) e soprattutto della catena di pensiero disfunzionale che l’ha generata. Senza dubbio le emozioni interferiscono con i processi di pensiero -in relazione appunto di reciprocità- e per lo stesso motivo la neuromodulazione emotiva permette una ragione funzionale ad un comportamento più responsabile, efficace e quindi meno catastrofico.

 

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