«Devo curare le mie ferite, e posso farlo soltanto da sola».
Quale dolore può portare alla tenace convinzione che l’antidoto a esso – la cura – sia da ricercare nella propria intimità e non nell’incontro? La nostra interiorità di persone è forse un pozzo inesauribile su cui immergersi e ripescare, riparare, rattoppare o nascondere?
Ciò che sono, come persona, lo devo all’incontro con l’altro. Non può esistere altra interiorità che non sia rapporto, incontro.
La cura è nella relazione e da lì non si smuove.
L’esistenza umana è relazione.
Arriva di colpo l’urlo di una temporale, nel mezzo di uno stanco sabato pomeriggio di luglio. La potenza del tuono è l’annuncio di una impetuosa burrasca che sfumerà nel giro di poco, un grugnito del cielo il cui tormento attraverserà i tetti delle nostre case soltanto per una manciata di minuti. Andrà via, scivolerà verso sud senza voltare indietro lo sguardo, e a me rimarrà il fresco del suo passaggio e l’odore dolce di un pericolo scampato. Ho sempre amato i temporali d’estate, sanno di violenza a tempo, da contemplare.
Tra i terrazzi di fronte di queste basse abitazioni vedo due bambini correre in cerchio sotto lo scroscio d’acqua e lasciarsi inzuppare gli indumenti. Mentre li osservo avverto che tra i miei pensieri si addensa lo spettro del pericolo, così mi ritrovo a preparare, in previsione d’una eventuale sciagura, un piano d’azione per salvare i due bambini.
«Sto male. Oggi non riesco nemmeno a parlare».
Il respiro è denso, lo sguardo fisso su di me. Forse quegli occhi aspettano che sia io a farne qualcosa di questo dolore muto. Lo sento tutto, questo dolore, lo sento in ogni zona del mio corpo e in ogni particella d’ossigeno che riempie la nostra stanza. Ma cos’ha, la mia persona, che si commuove al cospetto di tanto dolore? Pare, forse, paradossalmente, una mancanza di rispetto per la persona che ne è immersa? Voglio prendermene cura con tutte le mie forze, e più sento questa spinta, più si fa strada una debole inquietudine, un sordo timore: sarà, forse, troppo impetuosa la mia spinta verso la cura? Se quegli occhi mi scrutano dall’alto di una fortezza, potrà, addirittura, il mio slancio mischiarsi ai nemici che formano la schiera che ne assedia le mura esterne? Ovvero, potrà mai diventare, paradossalmente, minaccioso il mio insaziabile interesse umano di terapeuta?
Quegli occhi sono lame di penosa attesa che mi colpiscono senza ferirmi, almeno oggi. Arriverà il giorno in cui la mia struttura vacillerà e sarò costretto a riedificarne le fondamenta.
«Non posso star male per queste cose. Io so che ci sono dolori più grandi, devo mettere da parte il mio anche solo per rispetto di chi veramente sta soffrendo».
La scala gerarchica del dolore. Può davvero esistere una gerarchia simile? Se il dolore ha una funzione, non è proprio quella, banalmente, di far soffrire? Una simile piramide, anche solo alla luce di questo, non avrebbe ragione d’esistere. Vi sono esistenze che fanno un passo indietro anche rispetto alla propria sofferenza, che si defilano e rimpiccioliscono il proprio tormento pur di essere presenti per gli altri, perché è così che si deve fare. Anche il dolore si trasforma, così, nello spettro impersonale del si deve, al pari degli obblighi autoimposti in una gerarchica scala di valori dove il dovere primeggia come un tiranno anche, e soprattutto, al di sopra dei propri bisogni.
«La relazione con la mia compagna è finita e sono stato male. Punto»
Il volto è duro, la schiena ben salda sulla sedia. L’esistenza ha tremato per brevi istanti e resta l’angoscia che quello sciame sismico possa ripresentarsi. La lotta contro il dolore coinvolge ogni briciolo di energia disponibile, esso deve restare fuori, lontano, deve essere disinnescato al più presto. Soffrire non è propriamente l’attitudine del debole ma un inciampo che non deve avere posto nella vita di tutti i giorni.
Vi sono, poi, dolori silenziosi o nascosti, trasferiti, rovesciati come calzini sporchi, negati, sparati via o accolti come unica possibilità di fare esperienza del mondo e della vita. Vi sono persone che ne restano imbrigliate, fagocitate, appesantite, e altre che ne esperiscono tutta la sua enigmaticità.
«Dottore, io soffro come un cane tutto il giorno ma non riesco a capire perché sto così male».
Il dolore come pena eterna, come destino.
Il temporale ha scaricato tutta la propria potenza e, come previsto, scivola lontano, al di là dei tetti e ancora più giù, oltre la retta della statale che si apre in superstrada, e più giù ancora, tra i sassi bianchi dei muretti di questa terra, tra i campi secchi e le coste rocciose, e oltre, e ancora più giù dove una linea convenzionale separa i due mari che bagnano la penisola, dove un tempo non troppo remoto, seduto sulla cima di uno spuntone, la mia anima ha vacillato al cospetto della bellezza.
E cosa farne del mio dolore di terapeuta? Dove lasciarlo nell’incontro con i pazienti?
Non sono così avvezzo a scaricare la sofferenza come fosse un pezza logora, a non dare a essa la dignità che merita. Dopotutto non ho da abbandonare niente, più che altro mi ritrovo a stimare quel dolore come mio e soltanto mio, in una prudenza, ancora del tutto da conquistare, che ha la pretesa di non contaminare il mondo del paziente con ciò che conosco del mio, di mondo.
Le storie che incontriamo, da terapeuti, sono tutte inesauribilmente diverse tra loro, ma ciò che le lega, il loro centro di gravità permanente, è quel macigno indigeribile che, convenzionalmente, chiamiamo dolore. Cercano un aiuto e noi siamo lì, con il ventre mai sazio della curiosità, con lo sguardo eternamente incantato verso l’esistenza umana.
La cura è nell’incontro, è nella relazione.
Non c’è altro spazio entro il quale condividere il dolore.
L’uomo è relazione.
Sento l’eco di un vecchio adagio ancora, troppo a lungo, nascosto in cantina.