Gli schemi interpersonali sono strutture che vengono costruite a partire dalla propria esperienza relazionale e comprendono una rappresentazione di sé (caratterizzata da stati interni, emozioni, pensieri e stati del corpo), dell’altro (al quale vengono attribuiti emozioni e desideri e verso il quale si valutano le proprie disposizioni) e, infine, della relazione sé-altro e dei reciproci ruoli.
Queste strutture mentali guidano i diversi processi cognitivi, quindi l’elaborazione delle informazioni che riguardano le proprie relazioni, ma anche l’attenzione e la memoria, e danno origine a previsioni e aspettative relative alla relazione stessa.
Nei Disturbi di Personalità gli schemi interpersonali risultano particolarmente problematici poiché, a fronte di una storia di vita caratterizzata da esperienze relazionali negative, contengono rappresentazioni dell’altro che danneggia il proprio sé e ciò, di conseguenza, orienta in tal senso i processi cognitivi e le aspettative dell’individuo, dando origine ad automatismi dei quali si è poco consapevoli e che vengono utilizzati in maniera indiscriminata, cioè anche quando la situazione non lo richiederebbe, poiché la minaccia non è realmente presente. Oltre che problematici tali schemi risultano anche disfunzionali poiché contribuiscono tanto al mantenimento quanto all’aggravamento della psicopatologia.
Safran e Segal (1990) hanno formulato a tal proposito il concetto di ciclo cognitivo interpersonale, sottolineando come l’individuo, a fronte dei suoi schemi interpersonali, entrerà in relazione con l’altro con delle aspettative ben precise relative all’andamento della relazione stessa e come tali previsioni faranno sì che egli assuma un determinato atteggiamento e metta in pratica un certo tipo di comportamento, dei quali molto spesso non è consapevole. Il più delle volte tali aspettative diventano delle vere e proprie profezie che si autoavverano poiché le strategie che l’individuo utilizza inducono nell’altro le previsioni negative dello schema.
Un esempio può sicuramente chiarire quanto precedentemente detto: poniamo che durante la mia storia di vita io abbia imparato che l’altro è rifiutante e disinteressato e di conseguenza mi aspetto che gli altri mi rifiuteranno o mostreranno scarso interesse nei miei confronti. Con tali aspettative, nel momento in cui entrerò in relazione con l’altro, in base al mio schema interpersonale formulerò la previsione di essere rifiutata o di non risultare interessante e assumerò un comportamento di chiusura che molto probabilmente genererà nell’altro quello che temevo: rifiuto o scarso interesse.
Diverse sono le considerazioni che scaturiscono da questa semplice vignetta, alcune delle quali di grande rilievo per l’andamento della terapia stessa.
In primo luogo, per meglio comprendere quanto riportato, può essere utile ricordare gli studi sulle emozioni di Ekman (1984), che hanno messo in evidenza come gli specifici pattern espressivi corrispondenti a un’emozione primaria suscitino nell’altro riconoscimento e reazioni emotive innate, e il modello di Bara (1990), secondo il quale la mente percepisce stimoli sottosoglia, li elabora e trasmette alla coscienza soltanto il prodotto finito, che nel caso illustrato è costituito dall’atteggiamento interpersonale, ovvero dalla tendenza dell’altro a rifiutarmi in risposta ai miei pattern espressivi di chiusura.
In secondo luogo, durante un ciclo interpersonale non si assiste allo stato mentale problematico che caratterizza lo schema interpersonale disfunzionale (il rifiuto, in questo caso), ma alla strategia utilizzata per evitare o gestire il rifiuto temuto (la chiusura). In particolare, una delle strategie più rudimentali utilizzata per evitare o far fronte a uno stato temuto è quella del reverse (o rovesciamento dei ruoli), attraverso la quale viene fatto all’altro ciò che si teme venga fatto al proprio sé. Per rendere più comprensibile quanto appena detto, possiamo nuovamente far riferimento alla vignetta precedente: il mio comportamento di chiusura potrebbe connotarsi come un rifiuto dell’altro prima che l’altro rifiuti me e questo al solo scopo di prevenire il rifiuto temuto.
In terzo luogo, essendo la relazione terapeutica una relazione significativa al pari delle altre, può certamente costituire un teatro di possibili cicli interpersonali.
È su quest’ultima implicazione che desidero soffermarmi per illustrare una delle occasioni più autentiche e intense di comprensione della sofferenza del paziente in termini emotivi ed esperienziali. In base a quanto detto, infatti, terapeuta e paziente che vengono a trovarsi all’interno di un ciclo interpersonale possono sperimentare un vissuto simile oppure complementare. Nel primo caso ci si ammala della stessa malattia del paziente e si vivono i suoi stessi stati mentali, caratterizzati da emozioni e pensieri caratteristici. Attraverso la comprensione di quello che sta accadendo all’interno della relazione terapeutica si riesce cioè a comprendere la persona che si ha difronte da un punto di vista emotivo ed esperienziale e non soltanto cognitivo, poiché in quel preciso istante si vestono i panni del paziente. Riprendendo il concetto di reverse in questo caso il rovesciamento dei ruoli non è avvenuto del tutto perché entrambe le parti coinvolte si trovano in una sorta di stallo nel quale condividono lo stesso timore, che tuttavia non ha ancora preso forma. Nel secondo caso, invece, quando terapeuta e paziente sperimentano un vissuto complementare, il rovesciamento è completo e il terapeuta sperimenta esattamente ciò che il paziente teme di provare.
Tale esperienza consente al terapeuta di comprendere concretamente il dolore e la sofferenza del paziente nonché il contributo che lui stesso dà alla creazione dei cicli interpersonali che mantengono e aggravano la sua psicopatologia. Naturalmente la condivisione di tale comprensione riveste un’importanza cruciale per il percorso terapeutico, poiché il paziente può beneficiare dell’esperienza diretta dell’altro, ovvero del terapeuta, e ciò costituisce il preludio al cambiamento nelle altre relazioni significative.
“Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.” – F. Dostoevskij
Claudia Carabotta
Psicologa – Psicoterapeuta
Bibliografia
Bara B.G. (1990). Scienza cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino.
Carcione A., Nicolò G., Semerari A. (a cura di) (2016). Curare i casi complessi: la terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Roma-Bari: Laterza.
Carcione A., Semerari A. (2019). I cicli interpersonali problematici nei disturbi di personalità. Quaderni Di Psicoterapia Cognitiva – Open Access, (45). Recuperato da https://journals.francoangeli.it/index.php/qpcoa/article/view/8988
Dimaggio G., Semerari A. (a cura di) (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Roma-Bari: Laterza.
Dostoevskij F. (2014). L’idiota. Torino: Einaudi.
Ekman P. (1984). Expression and the nature of emotions. In: Schererer K., Ekman P. (a cura di) Approaches to Emotions. Erlbaum, Hillsdale, NJ.
Safran D.J., Segal Z.V. (1990). Il processo interpersonale in psicoterapia cognitiva. (trad. it.: Milano: Feltrinelli, 1993).
Semerari A. (a cura di) (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Metacognizione e relazione terapeutica. Milano: Raffaello Cortina.
Questo articolo ha un commento
Ottimo articolo sull'argomento, il più comprensibile per chi non è del settore. Conosco Claudia personalmente e so bene quanti anni di studio ci siano a ridosso di questo articolo - così ben chiaramente scritto! Complimenti vivissimi!!