Dott.ssa Maria Cristina Orsi – Psicologa
Non ci rendiamo conto del valore di quello che abbiamo fino a che non lo perdiamo e il lockdown l’ha dimostrato. Da qualche settimana, ho rielaborato alcuni avvenimenti di lavoro verificatisi prima della pandemia. Ho conosciuto un bambino dislessico, con evidenti difficoltà di lettura e scrittura quando lui aveva appena iniziato l’ultimo anno della scuola primaria. Rimasi sorpresa dal suo portamento: alto, robusto, solare e con tanta voglia di raccontare, non comuni alla sua età, soprattutto di fronte a chi era ancora una persona sconosciuta come me.
L’obiettivo dei nostri incontri era il trattamento della lettura e della scrittura ma intuì subito che su un’ora, almeno mezz’ora l’avremmo dedicata al parlare di sé: quello che gli accadeva a casa, le cose che faceva, le sue passioni, le relazioni con i familiari e non meno quello che gli accadeva a scuola. Era lui a volerlo. Dopodiché i suoi racconti terminavano sistematicamente con una sua pacca sulla mia spalla; ero disorientata in quanto era pur sempre una relazione asimmetrica e professionale e per due settimane mi limitai ad osservarlo e a riflettere. A riflettere perché avesse così bisogno di parlare e soprattutto in quale momento dei suoi racconti il suo volto diventava spesso triste. Era il momento degli abbracci incompresi e la sua pacca sulla spalla significava: “ora iniziamo, tanto sono abituato a tutto questo che ti racconto”. Ho impiegato alcune settimane per capirlo e da lì un susseguirsi di sue narrazioni e mie conferme.
“All’uscita da scuola, ancora in aula, stavo abbracciando due miei compagni ma una è inciampata ed è caduta perché lo zaino era ai suoi piedi. Si è fatta male al ginocchio, molto male. Mi hanno incolpato per averla abbracciata in modo maldestro; mia madre era mortificata ed io ero molto arrabbiato”.
Poi arriva la chiacchierata con la maestra:
“È un bambino che mette in imbarazzo, me e le mie colleghe, perché ci tratta come se fossimo sue sorelle, lo fa senza pensarci ma io devo rimproverarlo. Come giustifico ai suoi compagni le frequenti pacche sulla mia spalla o qualche abbraccio improvviso?”.
La maestra aveva perfettamente ragione. Come si giustifica? Non si giustifica, semplicemente non si fa. Allora parte da lì un lungo percorso, fatto di token comportamentali, riflessioni guidate, mappe concettuali, colloqui con i genitori, per far comprendere al bambino che gli abbracci o qualunque gesto affettuoso non solo non si danno in luoghi istituzionali, lavorativi e formali ma anche quando si è al di fuori da tali contesti bisogna saperne distinguere i momenti.
Si trattava di incanalare le sue emozioni nella giusta direzione, di aumentare il controllo di sé per evitare di essere etichettato come un bambino viziato, invadente e maleducato.
I suoi gesti affettuosi parlavano al suo posto; era una sua non comune caratteristica, era il suo modo per dire “ti voglio bene” ad un amico o ad un parente, per dire “grazie perché mi ascolti” alla sua tutor, “grazie dell’aiuto” alla sua maestra di sostegno, “grazie perché mi fai sorridere” ai suoi compagni. Messaggi che, nel frastuono della quotidianità, restavano incompresi.
Poi arriva la pandemia, il lockdown. Vietati gli abbracci, i baci, le strette di mano, le pacche sulla spalla, le carezze e anche nella mia relazione con lui è arrivato il silenzio, il silenzio dei suoi racconti. Ai suoi occhi, c’era poco da raccontare durante il lockdown, non poteva “dare fastidio a nessuno”.
Ci siamo rivisti a Giugno, non ci siamo abbracciati. Abbiamo sorriso. Avrei voluto dirgli che faceva bene a dispendere abbracci quando si poteva ma avrei rischiato di confonderlo; ho pensato che quando avrà raggiunto un consapevole grado di autocontrollo sarà sicuramente lui a dirlo a me.
Questo articolo nasce da due desideri: quello di mettere in risalto comuni difficoltà di genitori e istituzioni nella gestione comportamentale dei DSA e quello di non voler lasciar soli, nel loro quotidiano campo di battaglia, i ragazzi stessi.
Non è semplice comprendere le emozioni di un bambino, a maggior ragione se presenta disturbi dell’apprendimento che, di conseguenza, si ripercuotono sulle sue capacità interpersonali. Eppure c’è qualcosa di molto profondo che può fare la differenza durante la sua crescita: il confronto, la sintonia e la collaborazione tra istituzioni, famiglie e figure professionali. Un confronto vigile e discreto in cui genitori e istituzioni si vengono incontro, proattivandosi per evitare disagio e frustrazione dei propri figli o alunni in maniera consona alle varie esigenze individuali.
I bambini, durante la loro maturazione, non chiedono altro a noi adulti che di imparare ad educarli a quel groviglio di sensazioni, chiamate emozioni; educare alle emozioni infatti è un vero e proprio dovere, oltre che un bisogno, e il primo passo verso questo processo educativo è quello di imparare ad ascoltare le nuove generazioni con il cuore e non solo con le orecchie.
Dott.ssa Maria Cristina Orsi – Psicologa