Capita spesso di sentire lamentele rispetto a dolori o fastidi fisici, “ho sempre mal di testa”, “ho mal di pancia! “mi fa male la schiena!” … Questi sono solo alcuni esempi di dolore che interessano la vita di gran parte delle persone.
Quando si parla di dolore, tutti sappiamo che seppur fastidioso, esso ha un importante valore di sopravvivenza. Serve come avvertimento che non tutto va bene, segnalando la presenza di lesioni o malattie. Esso incoraggia a cercare un aiuto medico, contribuisce al processo di guarigione favorendo il riposo e il recupero e ci fa sapere, in sua assenza, quando riprendere le attività. Il dolore ci ricorda eventi e situazioni dannose passate, ci insegna cosa evitare in futuro e ci motiva ad agire per porvi fine. Queste funzioni protettive riguardano nello specifico il cosiddetto dolore acuto, un’esperienza relativamente breve e limitata nel tempo che si attenua quando la lesione guarisce o la malattia viene curata.
Cosa succede quando questo tempo non è limitato e il dolore è insistente o si ripresenta costantemente?
In questo caso si parlerebbe di un’altra forma di dolore, cronico o persistente, definito come un dolore che dura più di 3 o 6 mesi, ampiamente riconosciuto come un problema globale che colpisce circa un adulto su cinque nella popolazione generale.
Le conseguenze non possono essere sicuramente positive, anzi, sentire dolore per la maggior parte del tempo può condurre ad un malessere generale che si ripercuote nella vita della persona. Si assiste ad un aumento delle assenze dal lavoro e disoccupazione, a ridotta partecipazione ad attività sociali e ricreative, a minor supporto sociale percepito, all’aumento dei tassi di disturbi psichiatrici, suicidi, e disabilità.
Mal di schiena, emicrania, endometriosi, vulvodinia, fibromialgia, artrosi, nevralgie, esiti da trauma, herpes zoster, sindrome dell’intestino irritabile, dermatiti, sono solo alcuni nomi di malattie caratterizzate dalla presenza di dolore cronico che se non viene diagnosticato e curato in modo adeguato, non abbandona più la persona colpita.
Di fronte a tale condizione è assai diffusa la ricerca disperata di trovare una spiegazione al proprio dolore, a fare continui esami o trattamenti spesso senza riuscire a migliorare. Ci si sente continuamente malato come in un tunnel senza via d’uscita. E questo spazio nero intorno pone l’accento sui vari sintomi che tendono a variare o crescere nel tempo.
E’ fondamentale ricordare che il dolore ha diverse dimensioni importanti:
- una dimensione sensoriale: dove fa male e quanto fa male;
- una dimensione emotiva: quanto spiacevole è l’esperienza;
- una dimensione cognitiva: come interpretiamo il dolore in base alla nostra esperienza precedente;
- una dimensione comportamentale, come agiamo in risposta alla minaccia rappresentata dal dolore.
Ecco che entra in gioco il concetto di minaccia, in tal senso il dolore non è più vissuto come quell’elemento utile alla sopravvivenza ma piuttosto un fattore di cui aver paura e quindi da evitare.
Per tale ragione di fronte a tanta sofferenza la persona è spinta a mettere in atto strategie verso la ricerca di una soluzione. Prima fra tutte è il monitoraggio costante del proprio corpo, ponendo sempre maggiore attenzione ai sintomi fisici, con conseguente ricerca di informazioni, rassicurazioni e cure che spesso agiscono in modo palliativo ma non risolvono del tutto il problema.
In secondo luogo, una strategia spesso utilizzata è l’evitamento di tutto ciò che viene considerato causa di maggior dolore come fare attività fisica, uscire a fare una passeggiata, mangiare determinati alimenti o frequentare particolari luoghi o situazioni. Ciò contribuisce a rendere il dolore un problema insormontabile, di cui si ha paura e nello stesso tempo fa vergognare.
I fattori cognitivi ed emotivi hanno, quindi, un’influenza di fondamentale importanza sulla percezione del dolore e queste relazioni risiedono nella connettività delle regioni del cervello che controllano la percezione del dolore stesso, l’attenzione o l’aspettativa e gli stessi stati emotivi.
Soffrire di dolore cronico può rappresentare un costante fattore di stress che aumenta la quantità di effetti negativi che si sperimentano.
Come un cane che si morde la coda, questo maggiore stress traducibile come emotività negativa e catastrofizzazione, non fa altro che aumentare il dolore stesso, il quale diventa l’elemento centrale nella vita della persona. Prove emergenti hanno dimostrato che gli stati emotivi negativi svolgono un ruolo chiave nello sviluppo e nel mantenimento del dolore cronico. Ciò permette di comprendere come mai le persone con tale sintomatologia, presentino in comorbilità sintomi di ansia o depressione.
Il successo dell’adattamento alle condizioni di dolore cronico può dipendere dalla capacità di un individuo di autoregolarsi, cioè dalla capacità di esercitare il controllo o guidare e alterare reazioni e comportamenti. La capacità di autoregolarsi varia a seconda delle persone e delle situazioni e la forza di autoregolazione sembra essere una differenza individuale e una risorsa limitata che può essere affaticata.
In questa prospettiva, la ricerca collega il dolore cronico alle difficoltà nella regolazione emotiva, definita come la capacità di riconoscere e gestire i propri stati emotivi e la loro espressione.
Tale correlazione è stata riconosciuta anche a livello neurobiologico, nello specifico, lo stress associato all’esperienza del dolore cronico sembra ridurre il glutammato, un neurotrasmettitore eccitatorio, nella corteccia prefrontale mediale, strettamente associato ad una conseguente disregolazione emotiva.
Un malato di dolore cronico descrive in questo modo come le emozioni connesse al dolore possano essere opprimenti: “Ho paura del mio dolore perché so quanto possa diventare grave. Questo mi fa preoccupare e pensarci tutto il tempo, il che provoca rabbia e tristezza perché sto sprecando la mia vita. Non so come affrontarlo. Il dolore è un mio nemico ma a volte le emozioni sono più difficili da affrontare rispetto al dolore stesso.”
Questi dati ci suggeriscono che condizioni apparentemente di carattere prettamente medico, necessitino di interventi multidisciplinari per essere trattate.
Non basta una pillola a ritrovare la strada per “una vita degna di essere vissuta “ . Come ci insegna Masha Linehan, fondatrice della Terapia Dialettica Comportamentale (DBT) nata per individui altamente suicidi con elevata disregolazione emotiva e adattata da Steven Linton nel campo del dolore cronico con esiti positivi seppur circoscritti ad un numero limitato di studi.
Marika Gesuè
Psicologa – Psicoterapeuta in formazione
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Questo articolo ha un commento
Articolo molto interessante , e centra in pieno l’argomento .