Dott.ssa Emanuela De Marco – Psicologa
Sin dalla metà del Novecento, il legame di attaccamento tra bambino e caregiver è stato al centro di numerosi studi e ricerche, al fine di approfondire la conoscenza degli effetti che questa particolare forma di relazione potesse avere sullo sviluppo emotivo e sociale del figlio.
La nascita della relazione tra genitori e figlio, differentemente da quanto si credeva fino a un po’ di decenni fa, è precedente rispetto al momento della nascita del bambino e consiste nell’impegno affettivo, in risposta alla richiesta implicita del feto (insita nella sua presenza e crescita), che il genitore riversa, in termini emotivi, cognitivi e comportamentali nelle interazioni con lui.
Si parla di Attaccamento Prenatale, per indicare l’attuazione di comportamenti di interazione con il figlio non ancora nato (Cranley, 1981) e la relazione che si instaura tra genitore e feto (Muller, 1990).
Secondo Robinson (2010), l’attaccamento in gravidanza si sviluppa in sette stadi:
- la programmazione della gravidanza
- l’adattamento alla gravidanza
- entrare in sintonia con i movimenti del feto
- riconoscere il feto come individuo
- dare alla luce il bambino
- vedere e toccare per la prima volta il neonato.
Numerose ricerche si sono concentrate sui vissuti emotivi dei futuri genitori durante la gravidanza e su come, già nella programmazione della stessa, si possano ritrovare le basi della futura relazione con il figlio.
Infatti, “la procreazione responsabile implica la necessità di assumere la responsabilità educativa del bambino, che va guidato con amore e rispetto nella costruzione della propria personalità” (Righetti et al., 2000, p. 50). Questo comporta un’attenzione al concetto di generatività che va oltre l’aspetto puramente biologico e che comprende anche la scelta di generare, perché, per avere una relazione positiva con il bambino e una buona influenza sul suo sviluppo, il figlio deve essere voluto e accettato. Diversamente, la non accettazione può portare a delle condotte genitoriali scorrette (Moro, 1993).
Questa fase, spesso non considerata, richiede una stabilità personale e di coppia, che si rende evidente nella progettualità condivisa e che è il punto di partenza della genitorialità, poiché “un figlio, in realtà, può nascere solo quando nello spazio mentale dei suoi genitori trova un luogo in cui vivere” (Cardinali et al., 1992, p. 35).
La gravidanza rappresenta, per entrambi i partner, una fase di ristrutturazione psicologica, che connette aspettative verso il futuro (sulla relazione con il bambino, con il partner e sull’immagine di Sé) con esperienze passate, connesse alla relazione con i propri caregiver (Scopesi, 1990).
A partire dal primo trimestre di gravidanza, nella donna si verificano una serie di cambiamenti, che rientrano nei processi di maternità (aspetti biologici) e maternalità (elaborazione mentale di questi cambiamenti, che permette di prepararsi psicologicamente all’evento (Racamier et al., 1961).
Parallelamente ai cambiamenti psicologici vissuti dalla madre, l’uomo avvia il processo di paternalità, che comprende i cambiamenti in ambito sociale e intrapsichico, riguardanti l’essere e il sentirsi padre.
Al pari della maternalità, anche la percezione emotiva della paternità riguarda la costruzione di un’immagine di sé come padre e del bambino futuro (Del Lungo et al., 1986), ma si tratta di un processo più lento e altalenante, che cresce insieme al figlio (Vegetti Finzi, 1992) e che risente di continui adattamenti della realtà interna a quella esterna (Di Cagno et al., 1990), non potendo godere del contatto diretto vissuto dalla donna con il feto.
Un fattore che scatena il cambiamento emotivo della gestante è la percezione dei movimenti fetali: “numerosi autori la considerano infatti il punto di partenza per la costruzione del dialogo fra la madre e il bambino, oltre che un’occasione di maggiore coinvolgimento del padre nell’evento gravidanza” (Righetti et al., 2000, p. 66).
Proprio dalla percezione dei movimenti fetali si avvia, spesso, una forma di interazione tra i genitori e il feto e la coppia inizia a parlare al bambino, attribuendo intenzionalità comunicative ai suoi movimenti (Galardi, 1991). Questa maggiore consapevolezza della presenza del bambino permette alla madre di sintonizzarsi con le esigenze del feto, attivando in modo più tangibile l’empatia e l’attenzione verso le sue esigenze (in gravidanza e dopo il parto), influenzando positivamente l’attivazione dei sistemi comportamentali di accudimento e attaccamento (De Benedetti Gaddini, 1992).
Nell’ultimo trimestre di gravidanza, si inizia a preparare anche uno spazio fisico per il bambino: nella scelta del corredino, della carrozzina e della cameretta si possono vedere dei gesti simbolici attraverso cui i genitori, dopo essersi preparati (sin dalla programmazione della gravidanza) ad accogliere il figlio mentalmente, riorganizzano i loro spazi in modo concreto, affinchè il piccolo possa essere accolto nella completezza dei suoi bisogni (Pennisi et al., 1992).
Se i percorsi di maternalità e paternalità si sono strutturati nei modi sin qui descritti (rappresentativi del decorso fisiologico di gravidanza, in assenza di particolari eventi stressanti e di psicopatologia) si sarà creata una sintonizzazione emotiva con il feto e questo, al momento della nascita, permetterà di avere la sensazione di non incontrare “uno sconosciuto” (Soldera et al., 2008), perché con lui si sono intessuti rapporti significativi nei mesi precedenti; la sensazione sarà quella di ritrovare qualcuno che si conosce già, con l’aggiunta del contatto corporeo.
Si conosceranno già i suoi ritmi sonno-veglia, il suo temperamento, quali sono le sue preferenze musicali, i suoi gusti e cosa fare per placarlo e sarà più facile, quindi, la gestione nel post-partum, riuscendo a rispondere in maniera più empatica ai suoi bisogni, avendo già avviato nei mesi precedenti un processo empatico di comprensione e conoscenza reciproca.
Dott.ssa Emanuela De Marco – Psicologa