Secondo l’ultimo Rapporto Mondiale Alzheimer, pubblicato nel settembre 2016, la demenza o deterioramento cognitivo cronico progressivo colpisce 47 milioni di persone nel mondo, destinate a triplicarsi entro il 2050 in conseguenza dell’allungamento dell’aspettativa di vita. La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza e consiste in un deterioramento demenziale a esordio insidioso in assenza di un quadro neurologico specifico (Papagno, 2007).
È noto che il paziente con demenza, con il progredire della malattia, diviene sempre più dipendente e ha bisogno di un’assistenza costante. In Italia, la stragrande maggioranza delle persone colpite da demenza sono assistite a casa dai familiari. Il termine caregiver si riferisce ad una persona che assiste un proprio congiunto non più autosufficiente e bisognoso di cure. Prendersi cura di un familiare affetto da demenza può essere un’esperienza devastante che spesso determina un carico (burden) fisico ed emotivo molto elevato. Tra i caregiver si riscontrano, infatti, livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva molto più alti rispetto alla media della popolazione. Dai dati CENSIS del 2016 emerge che la maggioranza dei caregiver intervistati accusa stanchezza (80,3%), non dorme a sufficienza (63,2%), soffre di depressione (45,3%) e si ammala spesso (26,1%).
Diminuisce il tempo dedicato all’attività fisica e vengono trascurate l’alimentazione e la cura della propria salute. Il disagio psicologico è acuito dall’impegno economico necessario per l’assistenza al malato.
Negli ultimi anni sono stati esaminati anche gli effetti positivi del caregiving: alcuni familiari riportano sentimenti di gratificazione e appagamento, sono orgogliosi delle nuove abilità acquisite e riferiscono che l’esperienza di accudimento ha apportato significativi miglioramenti nella relazione con il paziente. Inoltre, secondo gli studi di Brown e colleghi, aiutare gli altri allunga la vita, infatti, gli individui che hanno fornito supporto ad amici, parenti o vicini di casa presentano tassi di mortalità più bassi di cinque anni rispetto alle persone che non hanno aiutato gli altri (Schulz, et al. 2009).
Dato l’impatto che la patologia ha sul malato, sul caregiver e sull’intero sistema familiare i sociologi hanno definito la demenza come “malattia familiare”, pertanto, risulta indispensabile non soltanto garantire sostegno al malato ma anche assistere la famiglia per tutelarne la salute mentale e mantenere una qualità della vita accettabile, “prendendo in carico” l’intero nucleo familiare.
Per sostenere adeguatamente il caregiver e abbassarne il burden è importante informare i familiari sulle caratteristiche della malattia, far conoscere i servizi sanitari sociali e assistenziali disponibili sul posto (gruppi di auto aiuto, centri diurni) e chiarire aspetti legali e finanziari. In alcuni casi, è utile l’intervento psicoterapeutico per garantire un momento di incontro non giudicante e accogliente al caregiver e per migliorare le sue abilità di coping e di resilience.
BIBLIOGRAFIA
Rovetto, Moderato (a cura di), Progetti di intervento psicologico, McGraw-Hill 2006
Vallar, Papagno (a cura di), Manuale di neuropsicologia, Il Mulino, 2007
Trabucchi, M (2003). Le demenze. UTET
Richard Schulz, PhD and Paula R. Sherwood, PhD, RN, CNRN, Physical and Mental Health Effects ofFamily Caregiving, Am J Nurs. 2008 Sep; 108(9 Suppl): 23–27.
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